Un tempo, per attraversare l’Appennino tosco-emiliano e recarsi da Bologna a Firenze, era necessario percorrere la SS 65 detta “della Futa”. Poi sono arrivate le autostrade, sicuramente più veloci, più sicure e più scorrevoli ma, senza dubbio, meno emozionanti e romantiche. Attraversare piccoli borghi, antichi centri abitati dove tra un cipresso e un altro spuntavano sempre i campanili o le torri di dimenticati castelli era anche un modo per conoscere il territorio, nella sua capillarità, ci si poteva fermare presso un forno, una pasticceria per uno spuntino, per frenare l’appetito con un prodotto del luogo, deliziarsi con un gelato o dissetarsi con prelibatezza di quella zona. Se si transitava in un centro abitato all’ora di pranzo trovavi una trattoria che ti faceva dimenticare letteralmente i morsi della fame. A volte erano deliziose scoperte che ci si riproponeva di tornare a far visita.
Quando poi lasciavi le colline bolognesi ed entravi in Toscana, scendendo di quota ed avvicinandosi alla città gigliata, le ville medicee circondate da meravigliosi parchi, allietavano gradevolmente la vista.
Ma torniamo in Emilia e mettiamo a riposo i ricordi, vorrei raccontare una storia che vale la pena essere raccontata, una storia dei colli di Bologna.
Appena usciamo dalla città, percorrendo la Futa, ci ritroviamo subito circondati dalle prime colline, ricordando che le colline bolognesi fanno parte esse stessa della città e i primi faggeti fanno ombra agli ultimi semafori cittadini.
Con Bologna alle spalle, arrivati a Pianoro, dobbiamo lasciare la strada principale e salire la collina a levante.
Dopo qualche tornante, alcune curve adornate da prati e poi da prime boscaglie ci porteranno fino all’azienda Podere Riosto. La vista sulle colline è notevole e gli scorci mozzafiato non si contano.
Non sono giunto qui per caso, ma con il preciso scopo di conoscere meglio un uva che si trova solo, soltanto qui e di conseguenza il suo vino.
Accolto dalla titolare Cristiana Galletti, i brevi convenevoli si esauriscono presto per dare più respiro allo scopo del mio viaggio, non lungo ma accompagnato da molte, chiassose curiosità e per metterle a tacere, devo subito sapere.
La storia inizia nel 1965, quando un raffinato studioso del territorio felsineo, vagando per le colline fotografa edifici tipici ed originali per completare il volume al quale sta lavorando “Antichi edifici della montagna bolognese”.
Luigi Fantini, afferma il nipote Enrico, era un eccellente fotografo ed era abile nell’estrarre la bellezza da ogni soggetto che immortalasse, come se ne potesse vedere l’anima.
Un giorno di quell’anno, una pianta di vite di straordinarie dimensioni catturò la sua attenzione. Luigi descrisse la vite fotografata ad Enrico riportando quanto fosse maestosa invitandolo lì, a Pianoro, per avvalorare la sua scoperta. Furono così prese delle misure affermando che aveva un tronco di 120 cm di diametro, in direzione nord e sud si dipanavano lunghi, rigogliosissimi tralci che potevano avere una lunghezza di una trentina di metri, questi produrrebbero uva nera in quantità importanti, dai 5 ai 6 quintali.
Voci, non con scientifico fondamento, dicevano che la vite avrebbe avuto anche più di 300 anni d’età. Una sopravvissuta dalla devastazione della fillossera? Probabilmente sì, una vite superstite, a piede franco, originale, antica.
Forse la scoperta avvenne in un momento sbagliato, la collina si stava spopolando in favore della città, delle fabbriche e quella zona pativa particolarmente questa situazione, l’antica vite fu semplicemente dimenticata nuovamente, per un abbondante trentennio questo tesoro ritrovato, fu vittima dell’oblio.
Nell’anno 2000, Stefano Galli della LIPU di Pianoro ritrovò l’antica vite ricoperta da fitti rovi, da molta terra di riporto lì sistemata e in bruttissime condizioni, non era più sostenuta dal suo centenario olmo ed era sparito il pergolato dal quale si potevano sviluppare i tralci.
Galli, vista la situazione in cui versava quel raro esemplare di vite, chiese all’allora titolare dell’azienda come poterla salvare e mantenere in uno stato adeguato.
Furono presi allora i dovuti provvedimenti, dopo potature, diradamenti e intensi lavori di ripristino del tronco assai rovinato si decise di innestare le gemme delle potature su portainnesti di vite di proprietà dell’azienda. Solo così si poteva preservare e far sopravvivere la “Vecchia Signora dell’Appennino” come viene spesso ricordata questa antica vite.
Si è potuto quindi procedere ad alcune analisi ampelologiche, più che ampelografiche, per identificare con più precisione che tipo di vite fosse e che uva potesse dare.
Ad un primo esame isoenzimatico questa antica pianta aveva parametri simili ad Aleatico, Bellone, Bonamico, Francavidda, Negretto, Nerello cappuccio, Perricone e Uva di Troia. Questo primo confronto morfologico, che allontanò ovviamente delle identità con le varietà a bacca bianca, escluse anche, tra quelle a bacca nera, conformità con Perricone, Nerello cappuccio e Uva di Troia lasciando dubbi sulle vartietà Negretto, Bonamico e Aleatico. Il Negretto è storicamente coltivato sul territorio bolognese mentre gli altri due vitigni sono antiche cultivar toscane che potevano essere arrivate a Pianoro attraverso la via che collega il capoluogo emiliano al territorio pistoiese. Ulteriori indagini molecolari esclusero poi identicità con queste tre uve quindi senza trovare alcun rapporto di parentela. Le ricerche, in sostanza, scartarono la presenza della vite in esame tra le presenti nel Registro Nazionale delle Varietà della Vite, si trattava quindi di una varietà molto antica.
Vennero evidenziate ed appuntate le epoche di evoluzione vegetativa sottolineando un periodo di germogliamento simile alla Barbera fino a giungere ad una raccolta tardiva rispetto sempre alla Barbera. Le bacche di forma sferica, di colore blu nero, sono inserite in grappoli di media dimensione, di forma conica e di media compattezza con una o due ali. La vigoria è piuttosto elevata e la particolarità di questa uva potrebbe essere che vive in lei una doppia identità; per farne vino e la bacca piuttosto grossa risulta buona da pasto.
Nel 2009 quest’uva è stata inserita nel Registro Italiano Vigneti con il nome di “Uva del Fantini”.
Nel 2020, i curatori del Vitis International Variety Catalogue (VIVC) hanno visto che il profilo genetico di Uva del Fantini è uguale a quello di Granadera, una varietà del germoplasma di Castilla-La Mancha reperita in rari esemplari durante una ricognizione negli anni 2006-‘07 nella provincia di Toledo.
Svelati quindi i percorsi che hanno portato a riscoprire una varietà sconosciuta a noi, immaginando l’entusiasmo, che avrei provato anche io e che avrà pervaso agronomi, ampelografi ed enologi giungo infine a valutarne il vino, il prodotto che immortala il frutto di questa vite rendendolo sublime ed empireo.
Il vigneto che preserva l’Uva del Fantini è posto ad un’altitudine di 300 metri, si tratta di poco più di mezz’ettaro con esposizione meridionale, i terreni sono composti da sabbie fossili plioceniche, limo e argille mentre la densità d’impianto si aggira sui 3.300 ceppi per ettaro; allevata a sperone e doppio Guyot ha rese di 80 quintali.
La brava e attenta Cristiana orgogliosa nel possedere un’uva antica e unica, ha descritto con assoluta umiltà, pacatezza e dovizia di dettagli il racconto della scoperta e decide quindi di porgermi un calice per farmi assaggiare i vini prodotti con l’Uva del Fantini. Ancora incredulo per ciò che ha vissuto questa vite, mi versa uno spumante rosato realizzato con l’antica uva in blend con Merlot e Barbera.
Si tratta di un metodo Charmat lungo vinificato in bianco, il colore si identifica con un elegante rosa corallo, caldo e brillante.
Di giusta intensità olfattiva e non particolarmente persistente, gli aromi fini e delicati di frutti rossi appena maturi accompagnano un fiore di rosa appassito, elegante, nobile. Il sorso, evidenzia una bollicina fine e non nasconde una bella acidità, probabilmente sospinta da quella della Barbera, la sapidità, che dona personalità, non è del tutto nascosta ma ben lavora ai lati del palato. Il delicato frutto rosso, la ciliegia, il ribes, vengono sostenuti anche dalla presenza del Merlot mentre la chiusura ricorda il melograno maturo con una gradevole nota amaricante.
Nel complesso uno Charmat di bella beva, fine, elegante ma con una personalità ragguardevole. Da accostare ad aperitivi a 360° con salumi e formaggi freschi o primi piatti di pesce con lievi mantecature ma credo che con fritti di gamberi nelle tiepide serate estive della riviera, possa esprimersi in un bel dialogo. Cose ne direste di ostriche? Pairing forse banali ma, si sa, nella banalità troviamo forse le nostre sicurezze, se volessimo essere un po’ più avventurosi lo proporrei con un austero salmone affumicato, un pollo alla birra o un sorridente piatto di involtini al prosciutto con piselli.
Non pago di questa prima esperienza, la pronta Cristiana mi porge un calice con un rosso fermo, questa volta l’Uva del Fantini viene proposta in purezza, per assaggiarla e capirla meglio.
Il vetro si tinge di rosso rubino con vivissimi riflessi viola, il naso, abbastanza intenso mi catapulta in un mondo floreale fatto di viola e rosa, la ciliegia, il lampone e la mora non ne sono da meno. Alla bevuta sorprende l’estrema prudenza del tannino che viaggia di pari passo con una delicata freschezza mentre la buona sapidità sostiene la struttura. Maturi frutti rossi galoppano tra lingua e palato mentre i fiori, nel naso importanti, si smorzano lievemente.
In tavola, questo vino da bere sicuramente giovane, lo abbinerei a piatti della tradizione bolognese come una tagliatella al ragù, un gran bollito e perché no a polpette in umido con patate. Azzardiamo un piatto di selvaggina da piuma in crosta?
Questo bel vino rosso mostra una scarsa carica polifenolica e il debole estratto secco non concedono l’opportunità di costruire vini per durare nel tempo con corpi e strutture importanti ma l’azienda sta lavorando con appropriati interventi, già in vigna, per ottenere proprio questo. Una lieve riduzione delle rese potrebbe far ottenere un miglior risultato a livello di zuccheri e sostanze polifenoliche tali da perfezionare la vinificazione in rosso. Per l’Uva del Fantini ipotizzerei anche una vinificazione in bianco per ottenere una bolla di discreta sostanza. Ma lascio, senza dubbio, all’enologo lo studio della soluzione migliore.
Cristiana è stata una padrona di casa ineccepibile. Tra una risata, una nozione tecnica e due calici di vino saluto il Podere Riosto e le sue colline, dolci pendii che mostrano a quest’ora della sera il loro lato più misterioso, intrigante. il cielo si colora di rosa e la mia pianura mi attende, più ricco di prima poiché anche queste terre mi hanno svelato un segreto. Non scorderò l’Uva del Fantini e attendo le nuove annate per confrontare risultati e aspettative. Intanto qualche bottiglia viene a casa con me.
Maestro Enogastronomo Sommelier
Alessio Atti